25 aprile 1974, terra di fratellanza
Come se essere contro un regime - qualsiasi regime - e desiderare la libertà fossero un fatto politico e non dovessero essere patrimonio e dovere di tutti gli esseri umani.
C’è un uomo di trent’anni in una strada di Lisbona. Accanto a lui il fiume Tejo scorre luccicante per andare a buttarsi nell’oceano. L’uomo cammina verso due carri armati e decine di fucili puntati. Il cielo è azzurro, la città è silenziosa, non fosse per il rumore dei cingoli sulle pietre bianche e nere delle strade.
L’uomo arriva a pochi metri dai carri armati e il generale davanti a lui ordina ai suoi soldati di sparare.
Non succede nulla.
Il generale dà un nuovo ordine, a voce più alta, questa volta chiamando per cognome il soldato che manovra uno dei carri armati. Il soldato apre la botola, esce e con un balzo è su quelle pietre bianche e nere. Lo dice chiaramente: «No».
Il generale si gira verso un altro dei suoi soldati, dà ordine di sparare. Di nuovo quel «No». Si guarda attorno, cerca di incrociare gli sguardi dei suoi uomini.
Nessuno obbedisce.
Alcuni di loro fanno un passo, poi due, e poi si ritrovano accanto all’uomo di trent’anni. Al suo fianco.
Lui non smette di guardare il generale fisso negli occhi.
Ha il cuore che gli batte forte, e una granata nella tasca.
Così inizia la prima puntata di un podcast sui 50 anni dalla Rivoluzione dei Garofani che non so se pubblicherò mai. Ho cominciato a scriverlo grazie anche ai suggerimenti della mia amica Chiara Formenti e poi mi sono fermata. Un po’ perché questo è per me un periodo pieno di impegni, di viaggi e di caos, un po’ perché - me ne sono resa conto nelle ultime settimane - io la storia del 25 aprile portoghese l’ho sempre e solo raccontata lì, a Lisbona, dove è successo tutto. L’ho raccontata a ogni gruppo in questi ultimi tre anni facendo vedere l’entrata del Quartel do Carmo, dove si era rifugiato il dittatore Marcelo Caetano, il Largo do Carmo, dove il colpo di stato si trasformò in una rivoluzione, l’Avenida Ribeira das Naus, dove si svolse la scena che ha aperto questo pezzo. L’ho raccontata cercando di ricacciare indietro le lacrime sempre, ogni singola volta. L’ho raccontata chiedendo alle persone che mi stavano ascoltando di immaginare quei ragazzi, quella gente, quei garofani proprio lì, dove eravamo noi in quel momento, sotto quel cielo azzurro e con quella città che come diceva Antonio Tabucchi, letteralmente scintillava.
Ed è proprio Lisbona che mi è mancata quando ho provato ad andare avanti con il podcast e mi è mancata anche perché è stata lei, Lisbona, ad aiutarmi in questi anni con i miei racconti.
È successo per esempio a marzo del 2022: stavo andando con un gruppo alla Casa do Alentejo e quando siamo entrati c’erano delle persone che cantavano il cante alentejano, la canzone tradizionale alentejana riconosciuta Patrimonio Culturale Immateriale dall’UNESCO nel 2014. Stavano intonando proprio Grândola Vila Morena, una delle due canzoni con cui la rivoluzione ebbe inizio: il primo pezzo trasmesso alla radio occupata dai soldati fu E depois de adeus, un successo di qualche mese prima che non comunicò nulla a nessuno degli ascoltatori se non alle truppe rivoluzionarie che con quel segnale capirono di poter partire per Lisbona; il secondo fu Grandola Vila Morena, una canzone scritta da José Afonso dos Santos, detto Zeca Afonso, una canzone che parla di libertà, di popolo e di uguaglianza, una canzone che era stata messa al bando dal regime subito dopo la pubblicazione e che comportò all’autore svariati interrogatori e vessazioni da parte della PIDE, la polizia politica portoghese.
Tante persone, tante voci, il ricordo di un uomo coraggioso che sfidò il regime e scrisse una canzone per parlare di Grândola, una città alentejana in cui i movimenti operai erano stati schiacciati da quella PIDE che non ammetteva il dissenso, una città terra da fraternidade.
Lisbona mi ha aiutata molte altre volte, mi ha aiutata a ottobre del 2022, quando all’ultimo momento si è aggiunta al gruppo una persona e io ho dovuto cercare una stanza per me nei dintorni dell’hotel. Ne ho trovata una in una casa in cui subito, appena entrata, ho respirato a pieni polmoni la Storia portoghese. I libri, le fotografie, i dischi, tutto sembrava raccontare qualcosa di particolare e infatti il secondo giorno ho cercato il nome della proprietaria su google: ero a casa di Maria Brederode Santos, la vedova di José Medeiros Ferreira, uno dei più importanti teorici della rivoluzione e primo ministro degli Affari Esteri del Portogallo democratico, una donna meravigliosa che durante la dittatura, dall’esilio in Svizzera, andava e veniva dal Portogallo per portare documenti segreti alle altre figure dell’opposizione.
Siamo restate in contatto e quando qualche mese dopo sono tornata a Lisbona con un gruppo ci siamo trovate in un locale sul Tejo, lei aveva una spilla a forma di garofano attaccata al bavero della giacca, ci ha raccontato il Portogallo di quei tempi e le difficoltà dei primi anni di democrazia, ci siamo abbracciate strette e poi, accompagnandola a casa, le ho detto «Il mio sogno è conoscere Maria José de Lancastre, la moglie di Antonio Tabucchi», e lei ha risposto «È una mia cara amica».
Ci siamo quindi viste anche con Maria José, anche lei testimone di quei tempi oscuri che suo marito Antonio ha raccontato così bene non solo in Sostiene Pereira ma anche in un racconto perfetto, Notte mare o distanza, contenuto nella raccolta L’angelo nero.
“E gli altri risero perché intuirono cosa voleva dire. E perché c’era bisogno di ridere, quella notte. Passavano rare macchine, i lampioni si erano spenti, una trovata della polizia affinché non si formassero per strada gruppetti sovversivi; di illuminato, in tutta la strada, c’era solo il portone della “Adega Val do Rio” e più avanti la “Guitarra dourada”, con una chitarra al neon come insegna nella quale si era fuso il tubo di una corda; e sotto, sempre al neon: crustáceos e mariscos. Tiago andò alla finestra e disse che sembrava il coprifuoco, e poi si mise una mano sul petto, come se facesse uno strano giuramento, o come se qualcosa lo opprimesse, e disse: questa volta non riusciranno a vincere, non riusciranno a truccare anche queste elezioni. Ma subito si girò verso i vetri e sussurrò: perché dovrebbero lasciarci vincere?, sono quarant’anni che comandano.”
Con un altro gruppo ad aprile del 2023 sono entrata nelle stanze del Quartel do Carmo in cui si era asserragliato Marcelo Caetano quel 25 aprile del 1974 e siamo arrivati fino alla sala in cui Caetano decise di arrendersi davanti a quell’uomo di trent’anni con cui ho aperto questo pezzo: Fernando Salgueiro Maia.
Per Fernando Salgueiro Maia ci vorrebbe - ci vorrà - un intero episodio di un podcast o di T(R)IPS perché è stato un uomo buono, onesto e giusto, un eroe che non ha mai voluto essere considerato tale, è stato il volto più famoso della Rivoluzione e allo stesso tempo non ha mai accettato incarichi politici perché sosteneva che il suo compito si fosse concluso, aveva contribuito a liberare il Portogallo dalla dittatura e da quelle sanguinose guerre coloniali a cui egli stesso aveva partecipato e di cui aveva conosciuto l’orrore, ed è stato un eroe nel senso antico del termine perché è morto giovane, è morto a 48 anni per un tumore.
Ora immaginate per favore quel capitano dell’esercito portoghese - non un generale - un capitano di trent’anni che il 25 aprile del 1974 sale da solo le scale di un palazzo del centro di Lisbona, sente qualcuno piagnucolare dietro a una porta (sembrava il pianto di un bambino, racconterà poi), la apre e trova due ministri del governo (a quel punto capii che stava succedendo davvero), la richiude e continua sulle scale, arriva in una sala con i divani di pelle marrone e poi entra in un’altra sala e trova il dittatore del suo paese, il rappresentante di un regime che dura da 48 lunghissimi anni, un regime che ha torturato migliaia di persone in Portogallo e ne ha uccise decine di migliaia in Africa, un regime che per 48 anni ha tenuto un’intera nazione schiacciata nel silenzio, nel buio, nell’arretratezza, nella povertà. Immaginate quest’uomo di trent’anni che cerca di parlare (mi tremavano le gambe) e finalmente trova le parole, chiede al Professor Marcelo Caetano di arrendersi e di cedere il potere, Caetano gli dice «Non voglio che la rivoluzione finisca nelle strade», e allora Maia gli risponde «Guardi fuori dalla finestra». Fuori dalla finestra ci sono centinaia di persone, forse migliaia, il largo do Carmo è pienissimo, ci sono persone arrampicate sugli alberi e sui lampioni, qualcuno anche sui cornicioni degli altri palazzi. Stanno tutti aspettando.
Caetano sa che è tutto finito ma cerca di guadagnare tempo, magari spera ancora che una parte dell’esercito venga a salvarlo e non sa che praticamente tutto l’esercito, stremato e frustrato da tredici anni di guerra in Africa, si è unito ai capitani, quelli che poi verrano chiamati Capitani d’Aprile, e quindi dice «Non posso cedere il potere a un semplice capitano», e Maia pronuncia il nome di António de Spinola, era stato un generale dell’esercito, a lui Caetano può cedere il potere.
Ed è tutto finito davvero a quel punto, a quel punto tante rivoluzioni vorrebbero la testa del dittatore e tante persone a capo di una rivoluzione sarebbero felici di offrire la testa del dittatore alla folla ma non quel capo, non quella folla: Maia dice a Caetano che è tutto predisposto per farlo uscire dal retro e non farlo vedere dalle persone assiepate in largo do Carmo. Caetano risponde «Uscirò dalla stessa porta dalla quale sono entrato».
Salgueiro Maia allora torna in piazza, sale sul tetto di un carro armato e lo fa avvicinare all’entrata del palazzo, Caetano viene accompagnato all’aeroporto da dove andrà a Madeira e poi a Rio de Janeiro, dove morirà di infarto sei anni dopo.
Il 25 aprile del 1974 finisce la dittatura più lunga della storia europea: una dittatura non militare finisce a causa di un colpo di stato militare che a differenza di quasi tutti i colpi di stato militari della storia porta nel paese la democrazia.
Il 25 aprile del 1974 i portoghesi, ai quali i Capitani quella mattina con un comunicato trasmesso alla tv avevano chiesto di stare a casa perché nessuno si facesse male, quei portoghesi obbligati all’obbedienza per quasi cinquant’anni, disobbedirono e si riversarono nelle strade, fecero festa attorno ai carri armati, portarono ai soldati pane, formaggio e acqua, cominciarono a sperare in un futuro di libertà, di democrazia e di sviluppo, e il sole splendeva su Lisbona quel giorno e io non so come farò a leggere questo pezzo perché a questo punto mi commuovo sempre e penso alla felicità e alla gioia nelle strade di quella città che è anche casa mia, penso alle ragazze a ai ragazzi di quei tempi, e poi penso anche a come noi oggi, abituati e viziati da quel tesoro fragile che è la democrazia, ci permettiamo di mettere in discussione le lotte per la libertà come se essere contro un regime - qualsiasi regime - e desiderare la libertà fossero un fatto politico e non dovessero essere invece patrimonio e dovere di tutti gli esseri umani.
E quindi credo che l’unico modo per chiudere questo lungo post in cui ho mischiato la storia portoghese ai miei ricordi, un pezzo la cui scrittura mi ha fatta piangere più di quanto potessi pensare, ecco, credo che l’unico modo sia citare proprio quell’eroe giusto e coraggioso, Fernando Salgueiro Maia, che nel suo testamento lasciò scritto: «Non preoccupatevi di dove seppellirete il mio corpo. Preoccupatevi di quelli che vogliono seppellire ciò che ho contribuito a costruire.»
Data la lunghezza di questo episodio, ho deciso di saltare i tre T(R)IPS e di lasciarti quella che è forse la più bella e la più famosa poesia dedicata al 25 aprile portoghese.
25 APRILE
Questa è l’alba che attendevo
Il giorno iniziale intero e limpido
In cui emergiamo dalla notte e dal silenzio
E liberi abitiamo la sostanza del tempo
Sophia De Mello Breyner Andresen
Grazie di avermi letta fino a qua. Come sempre se hai commenti o domande puoi rispondere a questa mail.
Puoi anche dire a tutti che esiste T(R)IPS:
E ovviamente se non sei ancora iscritto/a puoi farlo qua:
Un abbraccio!
Vale
grazie Valentina! Buon 25 aprile
Abbiamo tanto tanto bisogno di storie come questa. Mai come ora. Grazie Vale! <3