In un agosto caldissimo, durante una vacanza fatta di bellezza e di umidità al 99%, c’è stato un giorno, uno solo, in cui non abbiamo sudato e siamo stati accompagnati da un vento leggero, un vento che ci faceva respirare proprio lì dove il nostro respiro si fermava a ogni passo: eravamo a Hiroshima.
Abbiamo dormito a Miyajima perché eravamo a metà vacanza e avevo pensato a due giorni di riposo: Miyajima è un’incantevole isola della baia di Hiroshima con templi meravigliosi e un torii che a seconda della marea è fuori o dentro l’acqua, con cervi amichevoli ma non affamati come quelli di Nara, e con quella tipica atmosfera che trovi in Giappone quando ti allontani dal caos, quando cioè ti allontani dalla sensazione di essere su un altro pianeta e ti ritrovi con la sensazione di essere in un’altra epoca, più o meno mille anni fa.
Siamo quindi partiti da Miyajima di mattina con un aliscafo e siamo arrivati direttamente al Parco del Memoriale della Pace, il parco situato nel centro della città di Hiroshima che ricorda il 6 agosto del 1945, quel 6 agosto in cui la storia è precipitata in un profondo buco nero.
Sono nata nel 1976, ho frequentato le scuole elementari quando ancora si parlava della guerra fredda e della minaccia atomica, avevo già sentito molto parlare di Hiroshima e Nagasaki, due città, due nomi esotici che a noi bambine e bambini dell’epoca volevano dire «Mai più». Per questo quando siamo entrati nel Museo della Pace non mi è sembrato di vedere qualcosa che non avevo mai visto. Le foto delle persone ustionate, le divise stracciate e bruciate delle ragazze e dei ragazzi che si trovavano a scuola o a lavorare quella mattina, la descrizione precisa dello sgancio della bomba: sapevo già tutto.
E non sapevo assolutamente nulla.
Non sapevo che varcare la soglia di quel museo così spoglio, così doloroso e allo stesso tempo poetico mi avrebbe fatta sentire un puntino minuscolo con tutto il peso del mondo addosso.
Non sapevo che quel buio della sala principale, quei muri scuri e quelle foto in bianco e nero, quelle frasi di sorelle, genitori, amici - Era la mia sorellina adorata, litigavamo ma facevamo sempre pace, ora vorrei non aver mai litigato con lei - sarebbero state un passaggio obbligato per me ma che tutta, TUTTA l’umanità dovrebbe affrontare prima ancora di potersi definire, appunto, umanità.
Sapevo che mi sarei commossa ma non immaginavo che avrei pianto con singhiozzi che venivano da un punto profondo della mia anima, un punto che probabilmente mi univa a tutte le altre persone presenti quel giorno, a tutte le altre persone nel mondo.
Non sapevo - anche se dal nome del museo avrei dovuto intuirlo - che, pur piangendo, avrei trovato pace in quel posto devastato: pensavo che avrei visto un nemico, pensavo che avrei saputo di più di quegli Stati Uniti che a guerra praticamente finita e con il Giappone in ginocchio per i bombardamenti che avevano già distrutto città come Tokyo e Osaka, decisero di usare per la prima volta un’arma di distruzione di massa per molti motivi ma soprattutto per mandare un messaggio (quanto delle guerre si fa per mandare un messaggio, questa cosa mi sconvolge sempre).
Pensavo che avrei potuto provare rabbia, pensavo che avrei potuto odiare qualcuno.
E invece no, non ho odiato nessuno, non ho trovato un nemico, ho trovato delle testimonianze, ho trovato dei racconti, ho trovato la dignità di un popolo che non usa la storia - una storia così tragica - per creare idoli da adorare o fantocci da impiccare. Ho trovato la delicatezza di un popolo che riesce a raccontare un dolore così grande e allo stesso tempo riesce a guardare al futuro, a mandare messaggi che parlano del domani di tutte e tutti noi.
Una delle ultime sezioni del museo si intitola The dangers of nuclear weapons. Quando sono passata davanti a quella scritta mi è venuto in mente il cartello che si vede spesso nelle manifestazioni americane, soprattutto in quelle per i diritti civili: I can’t believe I still have to protest this shit. Ho provato tutta la tristezza del mondo nel pensare a quanto siamo di nuovo lì, di nuovo con la minaccia nucleare alle porte, di nuovo con la sensazione che questa nostra terra si possa spezzare in due, possa morire uccisa dalla follia distruttiva e rapace di chi si crede onnipotente.
Per giorni mio marito e io ci siamo chiesti se avesse senso portare anche Benedetta, nostra figlia di otto anni. Avevamo deciso che saremmo rimasti a turno fuori: è troppo piccola. Poi però siamo arrivati al parco, ci siamo avvicinati all’ingresso del museo ed è stato naturale mettersi in coda tutti e quattro insieme, entrare, evitare che vedesse giusto solo le immagini più forti. È stato naturale farla partecipare a questa incredibile celebrazione della vita che è il Museo della Pace, questo luogo profondo e allo stesso tempo altissimo, questa pietra che è diventata - o avrebbe dovuto diventare - testata d’angolo per la costruzione di un mondo in pace.
La domanda che Benedetta ha ripetuto più volte è stata Ma sono morti anche i bambini?, ed è una domanda alla quale non puoi rispondere con una bugia. Sì, sono morti anche i bambini, tantissimi. Nel parco c’è un memoriale tutto dedicato a loro, ci sono tanti disegni colorati e c’è una statua con una bambina e il suo orizuru (un origami a forma di gru): lei è Sadako Sasaki, uscita illesa dal bombardamento ma che a undici anni si ammalò di leucemia dovuta alle radiazioni. Suo fratello le raccontò una leggenda secondo la quale dopo aver costruito mille orizuru avrebbe potuto esprimere un desiderio. Sadako ne realizzò tante con la carta e con tutto ciò che trovava, comprese le confezioni dei farmaci che prendeva. Voleva chiedere la guarigione per lei e la pace per il mondo. Arrivò a 644 e poi morì. I suoi amici continuarono, realizzarono le restanti 356, e tutte le mille gru furono sepolte insieme a lei.
Nel memoriale dei bambini, proprio sotto la statua di Sadako, c’è una campanella. Benedetta si è avvicinata con i suoi passi svelti, l’ha suonata. Il cielo era azzurro, il vento ci accarezzava la pelle e io avevo i brividi.
Mi è venuto in mente il tassista che avevamo incontrato a Osaka qualche giorno prima. Parlava un ottimo inglese, gli abbiamo detto che saremmo andati a Hiroshima. Ci ha domandato «Andrete a visitare il Memoriale della Pace?», io gli ho risposto sì, lui ci ha detto «Grazie». E poi dopo un secondo, un secondo in cui sembrava stesse pensando a qualcosa, l’ha ripetuto: «Grazie».
We shall remember-
We must remember-
for only in memory
is there some hope for us all-
Elie Wiesel
Tre T(R)IPS su Hiroshima:
Una delle storie più belle di Hiroshima ha a che fare con le piante: non solo l’oleandro che è stato il primo fiore a sbocciare lasciando interdetti gli esperti che avevano previsto 75 anni di non-vita nella zona e diventando il simbolo della rinascita della città, ma anche i salici piangenti feriti, piegati, ma ancora vivi. Questo breve episodio del podcast Cortecce ne parla, ed è bellissimo.
Non è vero che non si può parlare ai bambini di morte e malattia: sono argomenti difficili che richiedono molto tempo e soprattutto molta attenzione da parte degli adulti, ma sono importanti. Il libro Sadako. Mille gru per un desiderio, di Johanna Hohnhold, è un ottimo modo per avvicinarsi alla storia di Hiroshima
Venne definito “il Primo Levi del Giappone”: Tamiki Hara fu fra i sopravvissuti alla bomba di Hiroshima e scrisse L’ultima estate di Hiroshima, un breve libro che contiene tutto il dolore di quei giorni e tutta la delicatezza e la poesia della letteratura giapponese. La casa editrice italiana è la fantastica e resistente Marotta e Cafiero di Scampia.
Presto ti parlerò dei prossimi viaggi LuzBoa (c’è anche il Giappone nei miei progetti!)…restiamo in contatto!
Fai conoscere T(R)IPS ai tuoi amici!