Ho l’abitudine di fermarmi sempre una notte in più a Lisbona dopo i tour in Portogallo: da una parte voglio esserci fino a quando l'ultimo dei partecipanti si imbarca, dall'altra queste ore da sola mi servono per recuperare il silenzio - così prezioso per me, per quello che sono e che faccio. E anche per recuperarmi, per ritrovare i miei contorni dopo tanti giorni passati a contatto con altre persone.
C'è in questo mio lavoro una cosa bellissima: l'incontro con le persone. L'incontro, e poi il passare del tempo insieme, conoscersi, riconoscersi, capirsi, anche non capirsi (può capitare), risolvere problemi, fare esperienze, e poi salutarsi, stringersi, sentire la mancanza prima ancora di essersi lasciati, dire mille volte "dobbiamo rivederci", non avere quasi mai un attimo di silenzio. Ed è davvero una cosa che amo, così come amo il momento in cui tutti se ne vanno e io resto sola e appunto, mi recupero, mi ritrovo, parlo con me stessa, riordino le idee.
A volte penso a quanto ho odiato la solitudine tanti anni fa. E poi penso anche a quel fidanzato che mi ha spinta giovanissima a esplorare la mia solitudine, a definire i miei contorni, a non appoggiarmi sempre a qualcuno, e io non lo capivo, non capivo le sue intenzioni, pensavo che non mi amasse abbastanza e invece forse mi ha amata così tanto da costringermi ad amare prima di tutto e prima di tutti me stessa.
Avevo diciotto anni, ero appena uscita dal liceo, amavo Constable, Turner, Calderón de la Barca e tutto ciò che di romantico esisteva al mondo, leggevo libri e sottolineavo le frasi che parlavano di amore e di istinti, odiavo la razionalità, sapevo a memoria il canto di Paolo e Francesca e sognavo di incontrare la persona perfetta con cui formare la coppia perfetta. Incontrai lui, anzi, in realtà prima di tutto lo sognai una notte d’estate in Grecia ma questa è un’altra storia, e quell’incontro mi fece soffrire e allo stesso tempo nascere un’altra volta.
Lui era romantico forse ancora più di me, amava i grandi gesti e i momenti perfetti ma amava anche la sua solitudine, stare con i suoi amici e divertirsi e non riusciva a capire come io invece volessi stare sempre e solo con lui. E così cominciò a (re)spingermi, non trovo altro verbo per rendere l’idea, a (re)spingermi verso il mio mondo, mondo che fra l’altro fino al giorno prima di incontrarlo esisteva eccome. Le mie amiche venivano sempre portate ovunque dai loro fidanzati, lui appena presi la patente cominciò a darmi le chiavi della sua macchina a una certa ora della notte: «Torna pure a casa tua, io resto ancora un po’». Pensavo fosse egoista, forse lo era, di sicuro cercò di insegnarmi qualcosa: mi insegnò a portarmi a casa da sola. Mi insegnò a non avere bisogno di nessuno.
Dei rischi dell’essere ritenuta da famiglia e amici la persona che si aggiusta sempre, quella forte, quella che ce la fa ogni volta da sola scriverò in un’altra occasione, ma qua vorrei parlare del luogo che da quel momento ho cominciato a frequentare e che è diventato essenziale, un’oasi, una droga che non posso permettermi di non assumere: la solitudine.
Premessa: sto scrivendo della solitudine che si sceglie. Perché ho ben vivido in mente come se fosse ieri quel giorno di sedici anni fa in cui nella mia casa da single scrissi dei pensieri su un foglio di word e quella frase: vorrei poter pagare il mutuo con una persona. Ero rimasta sola, non l’avevo scelto, stavo male. Quindi ecco, la premessa è che ci sono infinite solitudini, alcune molto dolorose, e quella di cui sto scrivendo io è solo una delle tante e come tale non ha ambizioni universali.
Stavo parlando quindi di quella diciottenne neopatentata che tornava a casa alle due di notte con una macchina non sua. Quattro anni più tardi sperimentai un’altra solitudine: andai a Lisbona e scelsi una casa con altre quattordici persone.
That I would be good di Alanis Morisette rimarrà sempre la canzone della mia solitudine portoghese: era il dieci ottobre, compivo ventidue anni ed ero chiusa in camera mia, una camera attorniata da altre quattordici camere, ero appena arrivata a Lisbona, non avevo nessuno con cui festeggiare, avevo persino mal di testa per la tristezza. Nel tardo pomeriggio una ragazza bussò alla mia porta: andiamo a vedere l’oceano? Mi infilai in una vecchia Fiat Uno grigia con lei e con altri due ragazzi della casa: quei tre diventarono i miei migliori amici dell’Erasmus.
E poi ho continuato sempre a oscillare fra il desiderio assoluto di amicizia, di amore, di festa, di chiacchiere e il bisogno quasi fisico di ore all’ombra del mio silenzio, giorni interi in cui nemmeno rispondevo al telefono e se lo facevo mi inventavo impegni che non avevo. Se sei una mia amica o un mio amico e mi stai leggendo: può essere che ti abbia raccontato una bugia quando ti ho detto che non potevo uscire, che avevo la febbre, che dovevo studiare o lavorare. La realtà forse era che avevo bisogno di stare da sola. Che è una frase che facciamo fatica a pronunciare, ho bisogno di stare da sola, un po’ come quando faccio una delle cose che amo di più al mondo, e cioè quando vado a pranzo o a cena in un ristorante da sola e quando entro devo dire al cameriere «Sono sola», perché «Sono una» non penso nemmeno che sia italiano, e ogni volta mi vergogno un po’, come se essere sola fosse appunto una vergogna e non invece quello che spesso è: una scelta. Una bellissima e sanissima scelta (qualche giorno fa per esempio ho pranzato nel mio posto dei ramen preferito da sola con l’ultimo romanzo di Alessandro Baricco, è stato un pranzo splendido).
Ché poi, a pensarci bene, Sono una sarebbe bellissimo: sono una, sono intera, e sto così bene che voglio mangiare proprio con me stessa.
E così anche viaggiare: ho cominciato presto a viaggiare da sola per lavoro ed è stata un’ottima scuola, una scuola che mi ha poi spinta a scegliere la solitudine anche per alcuni viaggi miei, per le mie vacanze. A partire dal viaggio in Brasile proprio in quel periodo in cui desideravo avere una persona con cui dividere un mutuo: partii sola, devastata dalla tristezza per un amore finito, arrivai in quello che insieme al Portogallo è il regno della saudade e inondai più volte l’oceano di lacrime, sante e salvifiche lacrime che probabilmente non avrei mai versato se fossi andata nello stesso posto con un’amica.
Non ho più smesso di viaggiare da sola perché viaggiare da sola mi permette di avere i sensi più accesi, mi permette di fare e andare dove voglio, mi permette di osservare e di leggere i luoghi usando i miei e solo i miei occhiali.
Lo so, fa sorridere che una persona che organizza viaggi di gruppo stia qua a scrivere quanto è bello viaggiare da sola ma il punto è proprio che secondo me i viaggi di gruppo - alcuni viaggi di gruppo, i miei di sicuro - sono un ottimo modo per sperimentare anche la solitudine: parti con persone che non conosci, se vuoi passi le ore a chiacchierare, se non vuoi ti fai semplicemente guidare e sperimenti la solitudine senza sperimentare l’ansia dell’essere del tutto solo o sola.
In tutto ciò oggi c’è qualcosa che non ci lascia mai davvero soli, e quel qualcosa è probabilmente lo strumento su cui stai leggendo o ascoltando questa newsletter. In una scena di Sex and the city, in uno dei tantissimi momenti iconici della serie, Carrie va a pranzo da sola e la sua voce narrante dice:
"Ho deciso che invece di scappare dall'idea di una vita da sola sarebbe stato meglio sedermi e portare quella paura a pranzo. Così mi sono seduta e ho bevuto un bicchiere di vino...da sola. Niente libri, niente uomini, niente amiche, nessuna armatura, nessuna finzione."
Ecco, oggi dovremmo aggiungere “niente telefono”, ma saremmo disposti a farlo? Ieri il mio operatore ha avuto dei problemi tecnici e per 4-5 ore non ho avuto dati: non ho sperimentato solo la solitudine, ho sperimentato una specie di panico. E ho proprio pensato a quanto stiamo perdendo tutti l’abitudine alla solitudine, ovvero l’abitudine a passare del tempo in uno spazio in cui, magari anche attorniati da persone, nella nostra testa ci siamo solo noi, i nostri pensieri, il nostro respiro. Uno spazio in cui abbiamo l’obbligo di conoscerci meglio anche se a volte siamo in imbarazzo quasi quanto dentro un ascensore con degli sconosciuti. Uno spazio con il quale bisogna entrare in confidenza per non averne paura.
C’è una canzone, una delle più belle, di Roberto Vecchioni, Luci a San Siro, che dice
Ti vedo e a volte ti vorrei dire
“Ma questa gente intorno a noi che cosa fa?”
Mi sono ritrovata con questi due versi nella mente in molte occasioni, ma quella persona che vedo sono io, quella persona con cui vorrei restare sola sono io. Sono serate normali o giornate piene di sorrisi e chiacchiere che amo, solo che a un certo punto ho bisogno di tornare a casa, una casa nella quale non abito più da sola ma ogni elemento della famiglia ha imparato a rispettare l’esigenza di solitudine degli altri.
Perché in fondo ora amare per me è proprio questo: è rispettare la dimensione e i contorni dell’altra persona, sapendo che solo facendo di tutto perché i suoi e i miei contorni rimangano intatti riusciremo ad andare lontano.
Tre T(R)IPS sulla solitudine:
Uno dei miei film del cuore, Hong Kong Express, parla anche di solitudini, oltre a essere una di quelle storie che riescono davvero a raccontare un luogo e le sue atmosfere. Il regista è quel genio di Wong Kar Wai, qua potete trovare una scena (il trailer secondo me manda un po’ fuori strada rispetto a cosa è poi la trama). Non so dove si possa trovare ma te lo consiglio!
L’anno scorso il New York Times ha parlato di solitudine molto meglio di me in questo bellissimo articolo, You can learn to love being alone. Interessante il fatto che in inglese ci sia questa netta distinzione fra solitude e loneliness.
Uno dei libri che mi hanno più aiutata in un momento di solitudine (era il 2006, io avevo trent’anni ed ero stata lasciata da un fidanzato) è La metà di niente, di Catherine Dunne. Fun fact: nel 2007 Veronica Lario citò il romanzo nella sua famosa lettera a Repubblica.
I miei progetti:
IL TOUR IN GIAPPONE
Dopo un 2023 passato fra Lisbona e l’Alentejo, nel 2024 LuzBoa andrà ancora più lontano: dal 10 al 22 novembre accompagnerò un gruppo in GIAPPONE! Dodici giorni fra Tokyo, Kyoto, Nara, Osaka, Hiroshima e Kamakura, un’immersione nel futuro e nella tradizione: Su un altro pianeta, in un’altra epoca. Qua puoi trovare tutte le informazioni.
Stiamo pensando di aggiungere altre date, se ti interessa scrivimi!
YOMU! IL BOOK CLUB DEDICATO ALLA LETTERATURA GIAPPONESE
È appena nato Yomu!, il bookclub dedicato ai libri ambientati in Giappone: stiamo leggendo il primo titolo, se vuoi unirti entra nel nostro gruppo whatsapp cliccando qui.
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Ciao Valentina, ho recuperato oggi questa newsletter. Ti ho ascoltata e le tue parole hanno risuonato dentro di me in modo potente. Grazie per aver espresso quello che sento e che raramente esprimo. Ti abbraccio
Da leggere e rileggere... e ritrovarcisi completamente! Stupendo!