L'appartenenza
In una newsletter che parla di luoghi, oggi mi e vi chiedo: cosa vuol dire appartenere a un luogo?
All'inizio di quel capolavoro che è Quei bravi ragazzi (per caso Martin Scorsese ha mai diretto un film brutto?) il protagonista, Henry, nato in una famiglia italo-irlandese, dice - con la voce strepitosa di Ray Liotta - di aver sempre voluto diventare un gangster perché era lì, a Brooklyn, in quella via di fronte a casa sua, fra quelle persone che parcheggiavano in doppia fila e non prendevano mai una multa, il luogo a cui sentiva di appartenere.
Tutta la storia della mafia ha a che fare con l’appartenere, così come la storia delle religioni, delle squadre sportive, delle nazioni, e di qualsiasi altra realtà che fa sì che le persone facciano o pensino cose anche sulla base del senso di appartenenza.
Sono nata e cresciuta a Torino, e fino ai miei ventitré anni non ho mai nemmeno per un secondo pensato al concetto di appartenenza. Ho sempre abitato nello stesso quartiere - un piccolo quartiere cresciuto attorno a una parrocchia - e poi a un certo punto un professore di Economia (quello che mi aveva parlato del terrorismo) mi ha detto «Tu devi andare in Erasmus».
Io gli ho risposto «Vorrei andare a Copenhagen».
E lui: «Sei matta? A sud, bisogna andare sempre a sud»
E così mi sono ritrovata in una giornata ventosa e sfavillante di fine settembre a scendere dalla scaletta di un aereo della Tap, con il mio amico Simone, che aveva vinto come me la borsa Erasmus nella stessa città, che mi diceva «Cazzo Vale, siamo a Lisbona».
Non ho pensato all’appartenenza in quel momento, e posso dire con serenità che non ci ho pensato nemmeno nei dieci mesi di borsa di studio (+2 aggiunti da me perché cosa fai, lasci il Portogallo a luglio?), presa com’ero dalla voglia di conoscere persone, innamorarmi, imparare il portoghese, fare festa, andare a vedere l’oceano e poi sì beh, anche dare esami.
Però ricordo un momento preciso. Ero con i miei compagni di università in un locale sul Tejo, stavo ballando - non sapendolo ballare - uno dei soliti samba che mettevano a fine serata e ho capito il motivo della mia profonda felicità: io a Lisbona non dovevo recitare nessuna parte. A Lisbona ero la Valentina più autentica. Ed ero la Valentina più autentica perché nessuno mi aveva mai conosciuta prima e nessuno si aspettava nulla da me: in quel giorno ventoso e sfavillante di settembre, su quella scaletta, in quel posto a cui io non appartenevo, ero nata un’altra volta.
Poi però a un certo punto sono tornata a casa. Sono tornata nella mia città, nel mio quartiere, nella mia famiglia. In realtà ho avuto un momento di indecisione: l’ultima notte a Lisbona, dopo aver salutato i miei amici e pianto tutte le mie lacrime, ho fumato cento sigarette chiedendomi se davvero volessi tornare, ma poi ricordo bene di aver letteralmente scacciato il pensiero. Io dovevo tornare, il mio posto era Torino.
È stato bellissimo - me lo ricordo bene - uscire di nuovo con i miei amici e ritrovare le dinamiche di sempre, le canzoni i locali i gruppi di sempre, le parole di sempre, e di sicuro ho sentito quello speciale rumore che fa il ricongiungersi con le proprie radici, ma ho sentito anche una consistenza diversa in quelle radici.
Era tutto rimasto uguale, e io non c’entravo più nulla.
Erano tutti rimasti uguali, e io ero completamente diversa.
Per la prima volta nella mia vita, senza aver mai nemmeno pensato al concetto di appartenenza, ho scoperto di non appartenere più.
Perché c’è una differenza fondamentale fra appartenenza e radici: l’appartenenza è legata al presente, le radici al passato, e sì, certo, le radici ti aiutano a stare in piedi, ma stanno lì, incatenate alla terra.
Durante le cene dei genitori italiani expat a un certo punto arriva sempre questo argomento: che radici avranno i nostri figli? Perché siamo tutti cresciuti in un luogo, abbiamo avuto tutti una piazzetta o un oratorio, conosciamo tutti bene una lingua se non anche un dialetto e ci troviamo figlie e figli che parlano più lingue ma quasi sempre l’italiano male, che vanno a trovare i nonni in Italia solo nelle vacanze e dell’Italia sanno poco (ma sanno poco anche del luogo in cui vivono), che hanno spesso la fortuna di frequentare scuole che fanno anche da oratorio e da piazzetta ma a nessuno di noi genitori sembra la stessa cosa, che sono abituati a salutare a fine giugno fra le lacrime i compagni di scuola che andranno ad abitare in altre nazioni e che - soprattutto - non sanno bene dove saranno fra qualche anno.
Quindi ci chiediamo spesso: quali saranno le loro radici? E poi: saranno in grado di stare in piedi senza radici?
Per un po’ di tempo ho provato a rispondere a questa domanda. Poi il mio percorso personale, questi miei ultimi anni caratterizzati da tante riflessioni sulla mia vita, mi hanno consigliato di lasciar perdere.
E ho cominciato a chiedermi: a cosa appartengo oggi io?
Da quel lontano 1999, quando sono tornata a Torino da Lisbona, so di non appartenere a Torino, o almeno di non appartenere a quel luogo come chi non se n’è mai andato. E attenzione, non è un giudizio, è solo una constatazione.
Mi sono resa conto di non appartenere a Torino uscendo con quei miei amici con cui non riuscivo a essere la vera me stessa, me ne sono resa conto cantando a squarciagola in macchina “Creep”, urlando, letteralmente urlando in quel punto esatto in cui Thom Yorke dice «What the hell am I doin’ here? I don’t belong here», quando le cose andavano davvero male, e me ne rendo conto ancora oggi, ogni volta che torno e capisco che sì, a Torino, fra le persone che conosco da una vita, ritrovo le mie radici, ma questo non vuol dire che io senta di appartenere ancora a quel luogo.
Quindi a cosa appartengo? Alla città di Lussemburgo, dove vivo? A Lisbona, dove vado spesso per lavoro e che continuo ad amare con tutta me stessa?
Il punto è che non appartengo a un luogo, o almeno non a un luogo sul planisfero.
Appartengo a delle idee. Per esempio sento di appartenere, sento di avere qualcosa in comune, sento che potrei lottare insieme a quelle persone che hanno un’idea del mondo molto simile alla mia: un’idea di libertà, di democrazia, di diritti, di giustizia.
Appartengo a un luogo ideale in cui ci sono persone che sanno che la gentilezza rende tutto più bello e più semplice, che sanno ragionare e usano il buonsenso, che non pensano che l’appartenere sia un concetto esclusivo ma pensano che sia - e lavorano perché sia sempre - un luogo dai confini inesistenti, capace di accogliere tutte e tutti.
Ovviamente in quel luogo ci sono anche amiche e amici che conosco da sempre, e parenti e conoscenti, ma ecco, quelle persone non sono lì perché sono nate a Torino come me: sono lì perché condividiamo l’idea di un luogo.
Quando ho capito, quando ho visualizzato questo mio luogo ho capito perché tutti quei discorsi sulle radici e sull’appartenenza mi avessero sempre fatta sentire scomoda: perché troppo spesso l’appartenenza implica esclusione.
Ho riflettuto tanto in questi ultimi due anni: sono tornata in terapia (ci ero andata per tanto tempo fra i venti e i trent’anni), ho affrontato molti temi, e anche se non credo di aver mai parlato con la mia psicologa dell’appartenere, con il tempo mi sono resa conto che le radici sì certo, ti danno la linfa per crescere, ti tengono in piedi, ma possono anche soffocarti.
E ho cominciato a osservare le mie figlie: non parlano un italiano perfetto, non vanno a sciare ogni weekend d’inverno e al mare ogni weekend d’estate, non conoscono la dimensione della piazzetta italiana e non hanno una cultura di riferimento, ma stanno imparando a trovare e a scegliere luoghi a cui appartenere.
Guia, che ha quasi quattordici anni, in questi mesi è nel tunnel della lettura, legge libri su libri dopo aver passato un anno stregata dal telefonino: è successo perché proprio tramite il cellulare ha cominciato ad appartenere a quel gruppo di persone che legge libri e ne parla su TikTok. E ne parla tenendo presente alcuni temi: l’inclusione e il rispetto dei diritti civili prima di tutto.
Benedetta è ancora piccola, ha quasi otto anni e chissà a quale luogo ideale deciderà di appartenere: per ora dice che diventerà una cantante e vivrà a Laigueglia, in provincia di Savona.
Di sicuro anche le figlie e i figli di tanti miei amici che abitano da sempre a Torino stanno scegliendo luoghi a cui appartenere, non voglio dire che solo i figli degli expat siano in quel processo: dico solo che quando le tue radici sono lunghe centinaia se non migliaia di chilometri e attraversano l’Europa e a volte il mondo, allora sono più sottili e più leggere, e se da un lato può mancare qualcosa, volare forse - non ne sono certa - è più semplice.
Questa è la prima volta che in T(R)IPS racconto una riflessione e non un luogo, e mi piacerebbe sapere cosa ne pensi: se vuoi puoi rispondere a questa mail o possiamo parlarne sui social, ne sarei molto felice!
Una precisazione: può far sorridere che una persona che parla di inclusione non usi un linguaggio inclusivo nella sua newsletter, lo so. Il punto è che il linguaggio perfettamente inclusivo mi riesce facile nelle comunicazioni brevi, un po’ meno in pezzi come questo. Migliorerò, lo prometto :)
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Tre T(R)IPS sull’appartenenza:
Un bellissimo podcast indipendente scritto da Samuele Sciarrillo in cui il senso di appartenenza è un elemento molto importante: Troubles - Una storia irlandese. Io dei Troubles irlandesi sapevo solo ciò che arrivava in Italia attraverso i telegiornali, quindi sapevo pochissimo. Questo podcast racconta in modo impeccabile e meticoloso decenni di storia, decenni di guerra avvenuta in Europa, non distante da noi, e racconta tutto ciò che non abbiamo saputo sull’IRA, ma anche e soprattutto su tutti gli altri attori di questa storia.
Non posso non consigliarti - se non l’hai ancora visto, ma l’avrai sicuramente visto - Quei bravi ragazzi (GoodFellas): confesso, non l’avevo mai visto, l’ho visto un mese fa e continuo a pensarci. Del resto è questo ciò che fa l’arte: non solo ti intrattiene, ma rimane lì, nella tua testa o nel tuo cuore, si manifesta in piccoli lampi e arricchisce ciò che vedi e che pensi. GoodFellas è una storia vera, Ray Liotta è morto troppo presto e se trovassi il genio della lampada gli chiederei di farmi andare a cena almeno una volta con Martin Scorsese (oltre che con Ugo Tognazzi, ma questa è un’altra storia).
A un certo punto della mia vita mi sono innamorata di un ragazzo che era cresciuto nella mia via, aveva frequentato la mia stessa parrocchia, ed era poi diventato un musicista. Abbiamo avuto la tipica storia alla Carrie e Mr Big (a proposito, grazie a Franci Laureri, con cui fra l’altro sono andata a New York, ne ha scritto qua, ho scoperto che Carrie è nata il 10 ottobre 1966, cioè il mio stesso giorno dieci anni prima, ora capisco molte cose), dicevo, abbiamo avuto la tipica storia alla Carrie e Mr Big in cui io c’ero sempre e lui quasi mai: eravamo totalmente diversi e appunto lui non mi amava e forse nemmeno io lo amavo ma amavo l’idea che fossimo cresciuti insieme e quindi ogni volta che andavo agli appuntamenti con lui ascoltavo a tutto volume una delle canzoni più belle della storia:
E ti vengo a cercare, di Franco Battiato.
Perché mi piace ciò che pensi e che dici
Perché in te vedo le mie radici
La mia storia con quel ragazzo è finita male ma la canzone è sempre meravigliosa.
A questo punto dovrei raccontarti dei miei viaggi LuzBoa ma questa newsletter sta diventando un romanzo quindi rimando alla prossima volta. Nel frattempo se vuoi puoi seguirmi su Instagram (@valesarastella) e puoi dire a tutte e a tutti che esiste T(R)IPS :)
Ciao!
Che pezzo. Bomba