Parigi, amavamo la vita
Arrivare a Parigi in automobile il venerdì pomeriggio se non ci vivi è sempre una sorpresa: ti aspetti il traffico di una metropoli e ogni volta trovi il traffico di una megalopoli sia in entrata che in uscita, e puntualmente ti chiedi dove stia andando quella lunghissima colonna di macchine che la sta lasciando e cosa vada a fare quella lunghissima colonna di macchine che sta entrando.
Poi arrivi in hotel, lasci le valigie, esci, ti siedi in un bistrot, ordini un bicchiere di vino, osservi le persone, osservi la vita che scorre in ogni angolo, il caos, le luci, il ritmo, e comprendi al volo ognuna delle due colonne: Parigi è una città dalla quale fuggi e ritorni, è una città che ti soffoca e ti riempie i polmoni, Parigi è bellezza e sfinimento.
Sono qua per un fine settimana con alcuni amici, appena arriviamo mi chiedono «Qual è il programma?» perché se lavori nel turismo tutti si aspettano che tu faccia da guida ovunque nel mondo ma soprattutto perché conosco Parigi molto bene, ci vengo da quando sono nata: Parigi è una passione che mi hanno trasmesso i miei genitori.
Il sabato ci svegliamo alle nove e poco dopo ci incamminiamo da Belleville, dove abbiamo affittato un appartamento, verso il centro. È una passeggiata piacevole anche se il cielo è grigio e noi non abbiamo ancora fatto colazione. Se fossi sola con mio marito e le mie figlie li obbligherei a camminare fino a un posto preciso, uno di quei caffè dove puoi mangiare avocado toast e bere matcha latte, ma i nostri compagni di viaggio vogliono “un tipico croissant francese”. Io non so dove si mangi un tipico croissant francese, credo che un posto valga l’altro a meno che non andiamo da Cedric Grolet a fare una coda di un’ora per un pain au chocolat a cinque euro, quindi, alle prime lamentele dei minorenni del gruppo per il troppo camminare a stomaco vuoto, entro in un bistrot che non mi sembra male - le tende verdi, le scritte tipiche, la lavagna con l’elenco delle varie colazioni scritte in gesso bianco - e chiedo alla cameriera un tavolo per sette persone.
I pain au chocolat e i croissant sono buoni, il mio café crème è ottimo e poco più di mezz’ora dopo usciamo da lì, io con in testa una canzone di Charles Aznavour, La bohème, che è una meravigliosa dichiarazione d’amore a Parigi.
Et ce n’est qu’au matin
Qu’on s’asseyait enfin
Devant un café crème
Épuisés mais ravis
Fallait-il que l’on s’aime
Et qu’on aime la vie
Non ho ancora finito di attraversare il ponte sul Canal Saint Martin quando mia figlia mi chiama. Torno sui miei passi e la raggiungo. È ferma davanti a qualcosa che sembra un memoriale, c’è una targa e ci sono tanti mazzi di fiori freschi.
Non mi serve leggere i nomi né la data scritti sulla targa perché in una frazione di secondo l’area del mio cervello che custodisce i ricordi ha collegato l’arrondissement e il periodo, ma li leggo comunque ad alta voce.
Nicolas Degenhardt
Lucie Dietrich
Elif Dogan
Milko Jozic
Kheir-Edoine Sahbi
Rivolgo lo sguardo verso il bistrot dal quale siamo appena usciti. La Bonne Bière. La sua terrazza si trova sulla punta dell’isolato, e ora mi rendo conto che quell’immagine l’ho già vista, l’ha vista tutto il mondo sette anni fa insieme a tante altre immagini, e io quella notte ero qua, a dieci minuti da questo punto, a piangere e fare refresh al telefono e a seguire il numero dei morti che aumentava, nel cielo il rumore degli elicotteri e quello delle sirene - quel suono preciso delle sirene delle ambulanze di Parigi che ogni volta fa il suo refresh in quell’area del mio cervello che conserva i ricordi, anche i più terribili.
Prendo il telefono dalla tasca e in un secondo ho la risposta che già conosco: quelle cinque persone, quei cinque nomi così diversi, così specchio della Parigi che non è solo Francia ma è appunto Parigi, sono state uccise nel bistrot che ho scelto a caso mentre cercavo un posto in cui i miei compagni di viaggio potessero trovare il tipico croissant francese.
Mia figlia scatta una foto alla targa e ai fiori, vorrei dirle di non scattarla ma va anche bene così.
Continuiamo a camminare e penso: anche gli attentatori avevano scelto a caso. Perché è proprio questo che terrorizza degli attentati, che rende questi atti un’arma anche a posteriori, per chi resta e vive a un chilometro come a mezzo mondo di distanza: la casualità. Il sapere che sarebbe potuto capitare o potrebbe capitare a chiunque, in ogni momento.
Pochi giorni dopo l’11 settembre 2001 il professore con cui collaboravo all’università disse «Non dobbiamo avere paura. Se abbiamo paura hanno vinto loro. Questo è il terrorismo: non è solo uccidere. È terrorizzare. È bloccare.».
Continuo a camminare, osservo le persone sedute nei bistrot e penso a quelle sedute nelle terrazze pochi giorni dopo il 13 novembre 2015, quelle che apposta uscivano, sfidavano il freddo e andavano a bere un bicchiere in luoghi all’improvviso diventati pericolosi, quelle persone che cercavano di vivere come prima e che sui social scrivevano #jesuisenterrasse. Quelle persone non hanno mai smesso di stare nelle terrazze di Parigi.
I minorenni del gruppo danno un’occhiata di soppiatto al mio Google Maps e vedono che mancano 37 minuti di cammino alla destinazione e diventano ancora più rumorosi; oltre a ciò sta cominciando a piovere, così entriamo nella prima stazione della metropolitana.
Quella del bistrot è stata una piccola cosa, e il caso esiste.
Eppure continuo a fissare la banchina di fronte a me senza vedere nulla, e continuo a pensare a quei cinque nomi, e a quella notte di sette anni fa.
Eravamo arrivati per un weekend noi quattro: mio marito, mia figlia di sei anni e la più piccola, di tre mesi. All’ultimo casello, accanto a ogni sbarra del casello, c’erano dei soldati che osservavano tutte le macchine squadrando tutti i passeggeri. Ho letto poi che i servizi segreti francesi, già all’erta dall’attentato a Charlie Hebdo, avevano saputo che qualcosa sarebbe successo in quei giorni, senza purtroppo capire esattamente cosa.
Arrivammo nel Marais attorno alle 20 di quel venerdì 13 del 2015, lasciammo le valigie nell’appartamento e andammo verso la Bastiglia per cercare un posto in cui cenare. Ora, io so che il caso esiste e la magia, le streghe e le premonizioni no, ma quella sera, in quel momento preciso in cui stavamo camminando sul marciapiede di rue Saint Antoine, incrociammo una coppia, lui molto esile, lei bionda e con una pelliccia corta bianca addosso, e mia figlia, quella di sei anni, mi disse «Mamma, perché quella signora ha un fucile in mano?». Io mi girai, osservai quelle schiene, quella pelliccia bianca, e le dissi «Ma non ha un fucile!». «Ti dico di sì. Lo teneva così.»
Piovigginava anche quella sera, il fucile era sicuramente un ombrello e a mia figlia erano forse rimasti impressi i fucili dei soldati al casello di un’ora prima. Ma quella frase e quella visione di una bambina con tanta fantasia, a volte ancora mi danno i brividi.
Andammo a mangiare da Hippo, ci sedemmo a un tavolo accanto al vetro, vedevamo tutta la piazza della Bastiglia. Un hamburger, due entrecôte, due bicchieri di vino rosso. E poi, all’improvviso, le sirene, tante. Le ambulanze che attraversavano la piazza e sfrecciavano tutte verso boulevard Richard Lenoir.
Lo spirito della libertà, il simbolo dorato della seconda rivoluzione francese, che svettava su una piazza molto più rumorosa del solito.
«Secondo te è normale?», domandai a mio marito. Ero stata a Parigi anche durante l’attentato a Charlie Hebdo, e qualcosa nella mia mente cominciava a suonare nello stesso modo.
«Stasera le persone escono, si divertono, magari c’è stato un incidente.»
Senza che chiedessimo nulla, la cameriera, prima sorridente, ci portò il conto seria, senza dire una parola. Pagammo e uscimmo. Un ragazzo quasi ci travolse, e poi un altro ancora. Entrambi andavano nella direzione opposta delle ambulanze, si lasciavano boulevard Richard Lenoir alle spalle, ed entrambi camminavano veloci come camminano le persone a Parigi all’ora di punta, non di sera, non durante il weekend.
Eravamo quasi a casa ma ci fermammo in una piazzetta del Marais a scattare una foto. La postai su Instagram e subito mi arrivò il commento di un’amica: siete al sicuro?
A un tratto le sirene, l’espressione della cameriera, la fretta di quei ragazzi, i miei ricordi dei giorni di Charlie si unirono, diventarono una cosa sola e dissi a mio marito «Andiamo a casa».
E poi quella notte ebbe la colonna sonora di un film di guerra per me come per altri due milioni di persone. Gli elicotteri sopra alle nostre teste, fermi. E le sirene: ambulanze, pompieri, polizia, in un fluire continuo, senza mai una pausa.
Dalla stanza sul cortile in cui ero non sentivo voce umana ma era come se tutta la città stesse urlando.
Non avevamo un televisore, mi attaccai al telefono, diventai una cosa sola con quello schermo che facevo scendere ogni cinque minuti per aggiornarlo: 20 morti, 27, 32, 41. Il messaggio dell’operatore che mi diceva che avevo finito i mega disponibili, il mio messaggio di risposta per pagare 50 euro ed espanderli.
54 morti. 62. 71.
La conta dei morti ha sempre un punto di non ritorno, un punto dopo il quale puoi arrivare a 100 o a 1000 e quasi non fa differenza perché dopo quel punto non riesci più a razionalizzare, non riesci più a contenere né la dimensione di ciò che sta succedendo né il dolore che provi.
Il rumore degli elicotteri e delle sirene non era ancora sparito quando mi addormentai senza forze, verso le cinque del mattino. Il mio telefono diceva 120 morti.
Ci svegliammo tre ore dopo, e il numero era diventato definitivo: 129 (un’altra persona, ferita, sarebbe morta in seguito, portando il conteggio finale a 130).
Ci vestimmo e verso le dieci uscimmo per fare colazione. Il Marais era vuoto. Non c’erano persone per strada, ogni caffè, ogni negozio normalmente aperto la domenica era chiuso. C’era solo una pasticceria aperta. Entrammo e ci sedemmo.
Le persone ai tavoli sussurravano, la ragazza che ci portò i croissant al tavolo doveva aver dormito poco come me, come tutti.
Era tutto grigio. Il cielo sopra di noi, la pelle e le occhiaie delle poche persone che avevamo attorno, l’aria.
Finimmo in fretta e andammo a fare due passi in rue de Rosiers. Incontrammo una donna molto anziana. Guardò il passeggino e ci disse in francese, in modo dolce ma deciso: «Cosa fate qua? Andate a casa, fuori è pericoloso».
In effetti andammo all’appartamento e poi caricammo la macchina e tornammo a casa nostra, in Lussemburgo, dove abitavamo e abitiamo.
Arriva la nostra metro, entriamo, alcuni di noi si siedono, io resto in piedi. Si avvicina un uomo, ha uno zainetto sulla pancia, è da solo.
Penso alle identificazioni dei cadaveri dopo gli attentati effettuati con esplosivi: quando si trova solo una testa staccata da tutto il resto è molto probabile che sia di uno dei terroristi.
Attorno a me, in questo vagone, ci sono tante famiglie, tante facce. Un bambino è seduto sulle gambe del suo papà, una ragazza guarda qualcosa su un telefono con l’amica, mia figlia ascolta Eminem nelle cuffie e muove le labbra cercando di seguire le parole della canzone.
Potremmo avere tutti la nostra giornata più o meno bella, potremmo avere momenti sereni e ridere e scherzare o arrabbiarci e piangere o semplicemente passare il tempo senza fare nulla oppure potremmo saltare tutti in aria perché quell’uomo potrebbe avere dell’esplosivo nello zainetto e a lui non importerebbe nulla di me, di quel bambino e di suo padre, delle due ragazze, di mia figlia, per lui sarebbe importante qualcos’altro ma soprattutto per lui sarebbe importante terrorizzare, bloccare, rubare l’amore per la vita a chi resta, rubare l’amore per la vita a Parigi.
Quell’uomo infila la mano nella tasca dello zainetto, io non respiro per un secondo. Estrae il telefono, apre un’app e comincia a giocare a biliardo. Io riprendo a respirare, arriva la nostra fermata e scendiamo.
Fluctuat nec mergitur è il motto ufficiale di Parigi dal 24 novembre del 1853, e dal 13 novembre del 2015 è qualcosa di più.
Viene sbattuta dalle onde ma non affonda mai. È ferita, e le sue cicatrici sono quei fiori davanti alla Bonne Bière, davanti al Bataclan, davanti alla sede di Charlie Hebdo, cicatrici sempre fresche dai colori accesi, ma Parigi continua, tenace e bellissima, ad amare la vita.
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Questo primo T(R)IP è stato anche il mio lavoro finale per il corso di reportage narrativo con Marta Ciccolari Micaldi, aka La McMusa. Da Marta ho imparato molto e mi è sembrato perfetto iniziare l’avventura di T(R)IPS con questo pezzo <3
Tre T(R)IPS su Parigi:
Un libro: Ernest Hemingway, Festa mobile.
Il giorno dopo gli attentati di Parigi davanti al Bataclan fu intervistata Danielle, una donna di settantasette anni, che disse «È importantissimo portare i fiori ai nostri morti, ed è importantissimo leggere più volte il libro di Hemingway, Festa mobile. Noi siamo una civiltà molto antica e porteremo il più in alto possibile i nostri valori, e fraternizzeremo con i cinque milioni di musulmani che praticano la loro religione liberamente e gentilmente e ci batteremo contro i diecimila barbari che dicono di uccidere in nome di Allah».
Festa mobile è un bellissimo memoir in cui Hemingway racconta la sua vita a Parigi quando era giovane, il rapporto con l’amatissima moglie Hadley e le serate con gli amici Francis Scott Fitzgerald, Sylvia Beach (della libreria Shakespeare and Company), Gertrude Stein e molti altri, ma soprattutto racconta la lotta quotidiana per vivere di scrittura e il fascino della Parigi della generazione perduta.
Il titolo di questo libro, pubblicato dopo la morte dell’autore, fu suggerito da un suo amico, A.E. Hotchner, il quale riportò questa frase di Hemingway: «Se hai avuto la fortuna di vivere a Parigi da giovane, dopo, ovunque tu passi il resto della tua vita, essa ti accompagna perché Parigi è una festa mobile».
Festa mobile si conclude così:
“Per Parigi non ci sarà mai fine e i ricordi di chi ci ha vissuto differiscono tutti gli uni dagli altri. Si finiva sempre per tornarci, a Parigi, chiunque fossimo, comunque essa fosse cambiata o quali che fossero le difficoltà, o la facilità con la quale si poteva raggiungerla. Parigi ne valeva sempre la pena e qualsiasi dono tu le portassi ne ricevevi qualcosa in cambio. Ma questa era la Parigi dei bei tempi andati, quando eravamo molto poveri e molto felici.”Un podcast: Il processo del secolo, di Emanuele Carrère per Repubblica.
Carrère è uno dei più grandi narratori dei nostri tempi, e in questo podcast ha raccontato il processo ai 14 imputati per le stragi del 13 novembre 2015, iniziato l’8 settembre 2021 e conclusosi nove mesi dopo. È un podcast duro ma che in qualche modo chiude i conti con l’orrore di quella sera.
Nella prima puntata, che potete trovare trascritta qui, Carrère spiega perché ha deciso di seguire questo evento, e la sua spiegazione ha molto a che fare con l’essere umano e con il bisogno di raccontare storie.
”Ma la ragione essenziale, quella che tutti condividono al di là della fascinazione personale per la giustizia e il fenomeno religioso, non è questa. La ragione essenziale è che centinaia di esseri umani accomunati dal fatto di aver vissuto quella notte del 13 novembre 2015, di essere sopravvissuti a essa o di essere sopravvissuti a coloro che amavano, compariranno di fronte a noi e parleranno. Ascolteremo la verità. Ci sentiremo a disagio. Ci ritroveremo ogni giorno, tutti i giorni, rinchiusi in quella scatola di abete bianco dove verranno provate e raccontate esperienze estreme di morte e di vita, sarà una lunga, lunga traversata e penso che fra il giorno in cui entreremo in quella scatola e quello, ancora lontano, ancora senza data, in cui ne usciremo, qualcosa in noi, attori e anche spettatori, si sarà mosso, sarà cambiato. Che cosa non so: vengo per scoprirlo.”Un ristorante: Chez Paul, alla Bastiglia. È il mio ristorante del cuore a Parigi. Perché ci vado da vent’anni, per l’atmosfera e i menù scritti a mano, perché è in una zona piena di vita, perché è pieno di parigini e parigine, ma anche per un altro dettaglio: era uno dei ristoranti frequentati dagli illustratori uccisi nell’attentato alla sede di Charlie Hebdo nel gennaio del 2015. Ogni volta, quando entro, vedo i disegni appesi alla parete e penso a loro.
I miei T(R)IPS a Lisbona
Forse lo sai già, forse no: sono andata a vivere a Lisbona a settembre 1998, l’ho lasciata a settembre 1999 ma non l’ho mai davvero lasciata: ho frequentato spesso lei, la sua storia, la sua letteratura, e nel 2019 sono nati i weekend LuzBoa, weekend disegnati e accompagnati da me alla scoperta dell’anima più autentica della città, dei suoi personaggi, delle pagine dei suoi libri, della sua musica, della sua magia.
Le iscrizioni per la prima parte del 2023 sono ancora aperte, trovi tutte le informazioni sul mio sito LuzBoa oppure puoi rispondere a questa mail e parlare direttamente con me.
Ti anticipo le date dei weekend:
24-27 marzo
21-25 aprile (una notte in più grazie al ponte del 25 aprile)
12-15 maggio.
Grazie per l’attenzione e ci sentiamo fra un mese! A proposito: a gennaio sarò in Portogallo per un viaggio alla scoperta di una regione antica e bellissima, l’Alentejo. Come sempre posterò foto e storie su Instagram (@valesarastella).
Ciao!
p.s: Se vuoi, puoi dire al mondo che esiste T(R)IPS :)