Scrivo questa newsletter in una giornata di attesa: sono nella hall dell’hotel, ho il volo di ritorno a Lussemburgo alle 23, sono le 12.27, odio partire presto la mattina ma anche aspettare tutto il giorno non mi fa impazzire. Potrei andare a fare un ultimo giro di Tokyo, forse a un certo punto andrò, ora però voglio raccontare di questo viaggio in Giappone, di ciò che c’è stato prima, durante e dopo.
PRIMA
Prima c’è stata tantissima ansia. L’ho detto alle persone che mi vogliono bene, l’ho detto in parte a chi mi segue sui social, l’ho detto anche al gruppo quando è arrivato: organizzare questo viaggio mi ha riempita di ansia. So che avrei dovuto iniziare questa newsletter racontando quanto questo viaggio sia andato bene - perché è andato davvero bene - e so anche che raccontare le proprie ansie e le proprie difficoltà va contro quell’idea di imprenditoria di successo che sembra autoalimentarsi ma non posso: devo partire da lì, da quell’ansia.
Un’ansia che non nasceva dalla sensazione di non essere in grado: se ho scelto di organizzare e accompagnare un viaggio in Giappone l’ho fatto perché sapevo di essere in grado di farlo. Fra l’altro non l’ho organizzato da sola: con me ha lavorato Volver, che è il tour operator con cui lavoro sempre, composto da donne super competenti.
La mia ansia nasceva da un altro luogo, da un luogo in cui io non sono mai abbastanza. Da un luogo in cui per essere abbastanza devo sentirmelo dire, altrimenti il mio valore non esiste. Da un luogo in cui si ritrovano tante persone, soprattutto donne. Da un luogo in cui noi donne dobbiamo essere sempre perfette e irreprensibili, molto più di quanto debbano essere gli uomini.
DURANTE
Il gruppo è arrivato l’undici di novembre e mentre loro a uno a uno uscivano dalle porte scorrevoli dell’aeroporto di Haneda, i mille cubetti della mia ansia si scioglievano come ghiaccio, facendomi sentire leggera ma soprattutto libera. Libera di prendere subito quel gruppo grande e portarlo in giro per il Giappone insieme alle guide che mi hanno aiutata, libera di scherzare e ridere e creare senza nemmeno volerlo - come spesso succede - uno spirito di gruppo, un’atmosfera di cazzeggio e interesse, insomma, quella cosa complessa e impalpabile che poi ti manca quando torni a casa dopo un viaggio.
Non è stato però solo l’arrivo del gruppo a scacciare la mia ansia: una grandissima parte l’ha giocata la terra in cui ero e in cui sarò ancora per poche ore. Perché il Giappone ti accompagna, il Giappone è una terra gentile, e non è gentile solo perché le persone si inchinano e sorridono spesso, o almeno non solo per quello: è gentile perché ti accoglie nella sua corrente. Perché è una terra in cui lo scopo di tutto e di tutti è il benessere della collettività, e tu devi solo imparare a ballare insieme a questi milioni di persone che anche nella fermata più affollata del mondo - Shinjuku - non si scontrano mai, nemmeno all’ora di punta; devi solo tenere a mente alcune regole e ti sentirai appunto, accompagnata, aiutata, a volte anche coccolata.
Abbiamo camminato per chilometri, abbiamo viaggiato da Tokyo a Kyoto a Osaka a Hiroshima e poi ancora da Nagano a Kanazawa a Takayama a Matsumoto alla Nakasendo e a guidare il gruppo negli spostamenti c’ero sempre e solo io e mai, mai in diciannove giorni ho avuto il terrore di non capire, di sbagliare, di perdermi: quella gentilezza giapponese amata ma anche tanto criticata da noi occidentali mi ha sempre portata con sé, è sempre stata il terreno soffice su cui sapevo di poter cadere.
Non voglio fare paragoni fra una terra e un’altra: credo che il viaggiare avendo sempre il proprio paese di origine come termine di paragone di tutto sia un enorme problema di molti, soprattutto di noi italiani (pensate a quanti di noi sono convinti che la cucina italiana sia la migliore al mondo e approcciano le altre cucine con questa idea fissa). Ogni volta che sono con un gruppo, alle varie affermazioni tipo «Qua è come in Italia, questa cosa è migliore/peggiore in Italia» chiedo sempre di abbandonare i confronti non solo per una questione di metodo (che pure esiste) ma soprattutto perché non serve. Fare confronti fra luoghi o culture non ti fa capire meglio un luogo o una cultura. Immergersi in un luogo semplicemente lasciandosi andare, lasciandosi galleggiare dentro acque ignote, aprendo i sensi e abbandonando i ricordi di ciò che ci aspetta a casa, è un’esperienza molto più utile e illuminante.
Non voglio quindi fare paragoni fra il Giappone e l’Occidente, ma devo dire che questa sensazione di essere parte di un tutto, questa consapevolezza dell’essere accompagnata, nasce proprio dalla grande importanza che qua viene data al bene comune, in totale contrasto con i molti paesi occidentali in cui la libertà individuale, il proprio valore, il proprio successo, in poche parole il proprio ego sovrasta tutto il resto. Il Giappone non è una terra perfetta - quale terra è perfetta? - ma questo sentirsi realizzati quando si fa la propria parte all’interno della collettività è qualcosa di cui ci si innamora molto in fretta.
E quindi insomma, questo viaggio è andato molto bene. Ho in mente alcune modifiche, alcuni piccoli aggiustamenti, ma è stato un gran bel viaggio, lungo e complesso, e la cosa che mi fa più sorridere ora è il rendermi conto di quanto sia stato per me molto più leggero il viaggio stesso di tutti quei cubetti di ansia che mi hanno appesantita e soffocata nei mesi in cui lo stavo programmando e immaginando. E forse è questo l’aggiustamento che vorrei fare prima di tutti gli altri: vorrei pensare fin dall’inizio che sono in grado anche se in quel momento nessuno me lo sta dicendo. Vorrei dire a me stessa che ci sono cose che non so e non saprò mai fare ma anche che quando sono con un gruppo e lo porto in giro e mi devo occupare di treni ristoranti racconti risate, sono nel mio, e sono brava.
DOPO
Quando il gruppo è partito ho provato una sensazione tipo horror vacui, avevo tre giorni a disposizione a Tokyo da sola e ho pensato «Cosa faccio io ora?». Ovviamente mi è passata in fretta e mi sono fatta abbracciare da questa città enorme e piena di vicoli minuscoli, da queste luci abbaglianti e dai torii dei santuari nascosti, ho fatto qualche piccolo acquisto per la mia famiglia e ho passato una serata da sola in giro fra Omoide Yokocho e Golden Gai e sono finita a chiacchierare con una ragazza americana di ventun anni al bancone di un jazz bar (quanto le ho invidiato un viaggio da sola in Giappone alla sua età) e ora sono qua, le ore passano e finalmente potrò salire sull’aereo, anzi sui due aerei che mi porteranno dalle persone che non vedo l’ora di riabbracciare.
C’è anche un dopo fatto di prossimi viaggi e di programmi: nella prima parte del 2025 ci sarà un viaggio in Lapponia, uno in Corea, uno a Parigi e nella seconda parte ci sarà un weekend a Lisbona perché il primo amore non si scorda mai, un altro viaggio in Giappone (con una bellissima sorpresa) e uno in un luogo che mi è letteralmente apparso di notte tramite le pagine di un libro - non vedo l’ora di raccontarvi tutto.
Quindi mi preparo a salutare questa terra gentile che è davvero stupore e tremori, questo paese in cui la dea dell’alba, della danza e delle risate, ballando scatenata è riuscita a far uscire il sole da una caverna (magari nella prossima puntata potrei raccontarvi come è nato il Giappone secondo la sua mitologia), questo luogo che ti prende per mano e ti accompagna nella scoperta di essere parte di un tutto. Perché dall’inizio alla fine dei nostri giorni è questo che siamo: parte di un tutto.
Tre T(R)IPS sul Giappone:
Un giorno a Nara, con i cervi che litigavano di fronte a noi, ho letto al gruppo un pezzo de L’impero dei segni, di Roland Barthes. È un pezzo sulla gentilezza giapponese e sull’orgoglio occidentale dell’essere diretti. Ve lo consiglio.
Sul volume di The Passenger dedicato al Giappone c’è un capitolo molto interessante in cui Ian Buruma, studioso di culture orientali, spiega perché il Giappone è immune al populismo. C’entra proprio quella sensazione di essere parte di un tutto: quando prima del tuo ego c’è la collettività, i populisti non hanno armi per convincerti a seguirli.
Ho studiato la storia del Giappone su vari libri, alcuni molto chiari altri meno, poi nelle settimane prima della partenza ho ripassato su quello che secondo me riesce a raccontare e allo stesso tempo divertire molto: The shortest history of Japan di Lesley Downer non è ancora stato tradotto in italiano ma spero proprio che arrivi prima o poi.
Grazie per avermi letta o ascoltata fino a qua e grazie di avermi seguita durante questo viaggio!
Come sempre, per qualsiasi commento puoi rispondere a questa mail e puoi dire a tutti che esiste T(R)IPS:
E ovviamente se non sei ancora iscritto/a puoi farlo qua:
Ciao!
Valentina
Che bella questa newsletter! Bello quello che racconti e come lo racconti! Grazie